ABOUT ME
Nato in provincia di Pordenone vi risiede fino alla fine degli anni '80 quando, per scelta e vocazione, passa da fotografo occasionale a professionista. Inizialmente svolge l'attività spostandosi dalla riviera Adriatica d'estate alle Dolomiti orientali d'inverno, occupandosi di ritrattistica e matrimoni nei periodi intermedi. Intraprende, durante tutti i '90, collaborazioni con società leader nella gestione di photo-service in villaggi vacanza esclusivi e le più prestigiose navi da crociera, ricoprendo vari ruoli. Dal 2003 stabilmente in FVG, tranne d'estate che trascorre per lo più al Sud e in Sardegna, da subito è riconosciuto come uno dei più apprezzati fotografi di eventi del Triveneto. Nel settore sportivo collabora abitualmente con federazioni di svariate discipline, management e sponsor internazionali. Indice di gradimento sono gli innumerevoli servizi distribuiti con successo a clientela molto esigente.
Attualmente continua a sondare nuove possibilità commerciali senza trascurare il ritratto in esterno e in studio, sua grande passione.
Stimato anche per i reportage a tema sociale che realizza per rispondere ad una propria esigenza interiore, spinto dalla curiosità per il prossimo e l'ambiente che lo rappresenta e condiziona. L'appassionano soprattutto i soggetti che, avvertendo d'essere inquadrati, non cambiano postura. Si limita preferibilmente agli scatti essenziali dei primi, brevi, momenti finchè l'atteggiamento rimane inalterato.
Raccolte e proposte per mostre personali fanno parte di collezioni pubbliche e private.
Walter Liva CRAF
Caro Gianni Borghi, ritengo che la fotografia documentaria sia un mezzo potente, anche se non ne conosco la tecnica. Osservo soltanto quanto m’impressiona il potere dell’obiettivo di sintetizzare in un’immagine ciò che, in realtà, richiederebbe la denuncia di un racconto, un film documentario o uno spettacolo teatrale.
Passo subito al dunque di questa lettera. Dopo aver visto le fotografie da te scattate nel 2008 ad Aviano avevo sentito l’eco della riflessione di Ivo Andrić sui volti umani e, in seguito, di un pensiero di Jean J. Rousseau. Tu avevi dedicato un’attenzione particolare ai volti e Andrić pensa che “l’uomo mai potrà del tutto osservare il cielo stellato e il volto umano”. Certo, alla base c’è il pensiero di quel filosofo che, parlando del cielo stellato sopra di noi e delle leggi morali dentro di noi, rispecchiava il Mondo e l’Io. Questo discorso non ha nulla di accademico, nasce da quanto mi dicesti: “Non sono riuscito a non soffermarmi allora ad Aviano e a non dedicarmi a questa testimonianza; era il minimo che potessi fare”. In questo tuo minimo intuisco l’empatia, l’arte di cuore e mente di immaginarsi nelle scarpe degli altri, nel racconto della loro vita che hai presentato attraverso i loro volti. Se essa esistesse davvero nella maggioranza dei cittadini del Vecchio Continente, i parlamenti degli stati membri dell’Europa Unita sarebbero assediati dai manifestanti contrari alle guerre in Libia, Siria, Iraq, Afghanistan, Ucraina… dove i centri del potere economico e finanziario sono coinvolti e, di conseguenza, non innocenti. Ed è più comodo delegare la decisione a chi fornisce le armi che assumersi la responsabilità di cittadini consapevoli.
E’ più comodo prendere la birra serale, il pop corn e, assaporata la droga televisiva (reality, quiz, pubblicità, show con delle ragazze sculettanti), andarsene a letto? Possiamo permetterci questo lusso di ottusità della mente, di assenza della memoria, di freddezza del cuore - che sono il fondamento della nostra crisi economica e morale? E lasciare lo spazio della politica a chi strumentalizza la presenza dei profughi? Che chiamiamo clandestini e consideriamo numeri, ospiti scomodi che si rifiutano di morire per l’assurdo delle guerre e delle disuguaglianze del Mondo intero?
Torno ad Andrić che dice “il volto è un fiore sulla pianta che si chiama uomo”. Non a caso al sostantivo fiore manca un attributo, questo “vuoto” pare lasciato a noi, come se dovessimo terminare il lavoro su di un mosaico incompiuto. Certo, non tutti i fiori sono colori che risvegliano in noi serenità e gioia. A me, a dispetto della bellezza dell’espressione umana, i volti da te fotografati lasciano l’impressione di rispecchiare non solo la loro ansia e nostalgia ma pure la speranza. Se, per caso, volessimo graffiare queste fotografie, sotto potremmo scorgere la mappa dei sentieri che hanno attraversato? Forse anche l’intero palcoscenico dei luoghi delle tragedie che hanno lasciato?
Perché, dirai, Rousseau? Solo perché è uno dei padri spirituali dell’Europa moderna che ora sta vivendo una delle sue decadenze morali? E’ semplice - uno dei capitoli del suo Contratto sociale incomincia con questa riflessione: “L’uomo è nato libero ma dappertutto è in catene”. A noi, nel nostro lunghissimo oggi, manca uno sguardo più profondo sulle nostre libertà. L’uomo comune (e pure chi pensa di non esserlo nell’Occidente odierno) è convinto che sulla libertà non serva nessun interrogativo, né dibattito. Siamo liberi, e basta. Talmente liberi che, incatenati dall'indifferenza, possiamo dall’alto osservare e giudicare gli altri, i diversi da noi e, di conseguenza, inferiori. Nel nostro concetto di libertà c’è pure la volontà di mostrare i muscoli con i più deboli e di chinare la testa davanti ai più forti. Perciò, socchiudendo gli occhi, con i palmi delle mani possiamo tapparci le orecchie di fronte alle migliaia e migliaia di tombe nel Mare Nostrum che, all’inizio del XXI secolo, restano senza nomi?
Credo, caro Gianni Borghi, che tu custodisca la memoria dei tempi i in cui i fuggiaschi e i dissidenti dall’altra parte della Cortina di ferro, fino al crollo del Muro, venivano regolarmente accompagnati da telecamere e riflettori. Furono testimonianze vive dell’Impero del Male e, in un certo senso, un efficace strumento contro il comunismo.
E proviamo oggidì a chiedere a una donna somala o sudanese che lavorava, ad esempio, a Tripoli, perché ha deciso di fuggire. Ci direbbe che i bombardamenti erano terrificanti e che temeva per la propria vita. Ciò sarebbe già una specie d’incontro con un volto che possiede un nome e un cognome, che ha le sue ragioni per emigrare, che potrebbe ricordare in modo odioso chi ha distrutto con le armi Tripoli, Baghdad, Damasco… (Dei nostri modi di pauperizzazione dei due terzi del Pianeta non vorrei parlare in questo momento. E nemmeno delle idee dell’Impero del Bene le quali, applicate ed esportate a forza, di solito impazziscono).
È giunto il tempo di concludere questa lettera. Lo faccio con una domanda: come in un teatro dell’assurdo - è successo qualcosa tra i due 9 novembre a distanza di 25 anni? Mentre quella sera di novembre del 2014 ascoltavo frammenti dell’Inno alla Gioia, mi pareva che nelle note di Beethoven qua e là s’inserisse il suono dei pescherecci di Lampedusa. Era il loro addio ai naufraghi nell’ottobre dell’anno scorso, addio per 367 senza nome. È strano il suono della sirena pigiata con il palmo della mano da genti che già da anni stanno in prima linea per cercare di salvare gli ultimi di questo mondo. Quasi dicessero: chi ci ha sentito e chi non ci ha sentito deve sapere che questo mare non può essere il mare dell’indifferenza.
Qualcuno, un giorno, dirà che il Mondo della nostra epoca fu diviso tra chi sentiva e chi non sentiva il suono di quei pescherecci?
Božidar Stanišić BIO